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Venerd Santo in Darfur

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Mi chiamo Miryam. Sono una donna Masalit. Il mio villaggio si chiamava Balla. Oggi non esiste più. La notte in cui vennero i Janjaweed fu la notte dei demoni. Nel villaggio eravamo rimaste noi donne, i nostri bambini e pochi vecchi. E per noi, solo per noi, fu fuoco in cielo e terra. Mentre dall’alto piovevano bombe, i demoni abbattevano le nostre case, bruciavano gli abiti, le coperte, le provviste. Il pozzo fu fatto saltare.
Gridando, scappavamo, senza vedere dove, fra fumo e polvere. Mi sentii prendere per le caviglie e, mentre cadevo in terra, cercavo di spingere avanti i miei due figli. Risucchiata sotto il corpo di un uomo, fui violentata. Poi, mi strapparono i vestiti e mi presero, uno dopo l’altro. Non so dire in quanti: svenni o morii, non so come, non so perchè mi risvegliai; intorno solo rovine, carogne d’animali e i corpi straziati della mia gente. L’odore di carne bruciata mozzava il fiato.
Vagai, rovesciando piccoli cadaveri, folle ed incurante del dolore e del sangue che mi colava giù dal ventre.
Poi li trovai, abbracciati l’uno all’altro, dilaniati dagli artigli dei demoni.
In un angolo, accovacciato nella polvere, un vecchio piangeva, dondolandosi avanti e indietro, come portato dal vento e le lacrime lavavano l’urina con cui avevano profanato i nostri Corani.
Allora e solo allora, urlai, urlai con quanto fiato avevo in gola; urlai contro il cielo, urlai contro mio marito che combatteva non so dove, urlai contro mio padre e mia madre, contro il Profeta.
Come richiamate dalle mia grida, comparvero dal nulla poche, povere ombre. Raccogliemmo quel nulla che riuscimmo a trovare rovistando fra le macerie e ci mettemmo in cammino. Qualcuno diceva che c’era un posto dove ci avrebbero aiutati.
Arrivammo al campo dopo giorni di cammino. Ci accolsero ma non c’erano tende per tutti.
Cominciai a dormire sotto ad un telo tenuto su da quattro rami secchi. Con le altre donne, mi mettevo in fila, per ore, per una ciotola d’acqua e un po’ di cibo quando ce n’era.
Intanto i giorni passavano ed il mio ventre s’ingrossava. I miei figli erano morti ma nel mio utero cresceva quello di un demone. E mi succhiava via quel poco che riuscivo a trovare. Quando ero, ormai, all’ottavo mese, un gruppo di uomini si avvicinò al campo. Erano guerriglieri del Movimento per la Liberazione del Sudan. Quando scoprirono i volti per bere la nostra acqua, riconobbi mio marito. Mi avvicinai piangendo ma lui mi guardò, sputò in terra davanti ai miei piedi e mi voltò le spalle. Da allora non volle più sapere nulla di me e non chiese a nessuno cosa fosse successo ai nostri figli.
La vita nel campo divenne insopportabile: sola, ripudiata e madre di un bastardo.

Oggi sono tornati i Janjaweed. Hanno saputo del campo e sono venuti a finire ciò che, più di un anno fa, avevano iniziato. Ci hanno ammucchiati al centro dell’insediamento ed ora sono intorno a noi, imbracciano armi e fra un minuto inizieranno a sparare.
Non so cosa o chi mi spinga a farlo, ma mi alzo e vado verso uno di loro. Con le braccia alzate, tendo verso di lui il bambino che piange. Urlo: “Questo non è mio. Prendetelo: è vostro. Non ha sangue Masalit o Fur. È un arabo come voi: prendete vostro figlio, salvate vostro figlio!”.
Il primo colpo mi fa scoppiare fra le mani, come un’anguria colpita da un sasso lanciato da una fionda, il bambino ed il secondo è per me. Mi centra in pieno petto.
Mentre cado, strane parole mi attraversano la mente: “Tutto è compiuto!”.
Sprofondo e tutto intorno è un crepitio di spari. Sento il sangue scivolare via insieme ad una vita che non voglio e confluire, in un rigagnolo, con quello bastardo di questo bambino che, più degli altri, mi fu figlio e con quello delle mie sorelle.
Il deserto non ha acqua ma potrà fiorire di papaveri.

 Maria Musik - 05/04/2010 20:00:00 [ leggi altri commenti di Maria Musik » ]

Gentile Anna,
non ho letto il libro in questione ma ho seguito, attraverso la lettura di numerosi articoli, la vicenda del Darfur. Mi hanno colpito, in particolare, le atroci testimonianze delle donne che vivono nei campi, il loro profondo dissenso nei confronti di una guerra che non capiscono ma che le ha private di tutto. A queste storie vere, mi sono ispirata: ho ritenuto giusto amplificare la loro voce.

 Anna Guzzi - 05/04/2010 19:14:00 [ leggi altri commenti di Anna Guzzi » ]

Il passo è molto drammatico; mi ha colpito perchè da poco ho letto sullo stesso tema "Il traduttore del silenzio" di Daoud Hari, un giovane nato in un villaggio Darfur, divenuto interprete per giornalisti stranieri. Stilisticamente ritengo più efficace il testo qui pubblicato, invece quello di Hari ha soprattutto un valore di testimonianza sociale. Volevo chiedere all’autrice se, per caso, si è ispirata o conosce questo libro.

A presto, grazie

 giuliano - 04/04/2010 17:31:00 [ leggi altri commenti di giuliano » ]

Bellissimo da accapponare la pelle, vero, reale da prenderti leviscere e farti velare gli occhi mentre scorrono le parole. Complimenti Maria!!

 Loredana Savelli - 03/04/2010 21:17:00 [ leggi altri commenti di Loredana Savelli » ]

Tremendo, meno della realtà che hai descritto veristicamente.

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